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Qualsiasi cosa può essere vera. Qualunque cosa si possa immaginare sta realmente accadendo da qualche parte lungo l’asse dimensionale. Le cose accadono e riaccadono un miliardo di volte producendo lo stesso esatto risultato e senza che nessuno impari mai nulla. Qualunque cosa si possa pensare, immaginare, sperare o credere, si è già verificata. I sogni non fanno che avverarsi in continuazione, è solo che non si avverano per chi li sogna.

Pensate a qualcosa di folle, o se non ci riuscite provate ad accostare aggettivi e sostantivi a caso.

Alghe sdegnate? No problem: le astiose Hijiki di Damogran. Le colonie di alghe Hijiki spazientite dai branchi di ambracefali tristriati che le scansavano noncuranti per andare a sbocconcellare i teneri polipetti del corallo si riunirono separando la barriera corallina dai pesci. L’effetto domino fu che la barriera divenne sterile e morì. Le Hijiki si erano legate troppo saldamente per riuscire a staccarsi e morirono assieme agli odiati ambracefali.

Clown assassini? Troppo facile. Provate ad aggiungerci un’ossessione per le verdure. Digitate queste parole sulla videotavoletta della vostra Guida galattica e otterrete un milione di risultati, primo fra tutti la storia di Bling Blong del Circus Minimus, due piccoli clown che s’innamorarono, entrambi, di Gerda la Mirabolante Donna Cetriolo. Dopo mesi e mesi di contese fra i due, Bling riempì d’acido una torta alla crema e squagliò il fratellino durante lo spettacolo pomeridiano. Gerda adesso era tutta sua, ma il senso di colpa lo intontiva a tal punto che una sera per errore inghiottì la promessa sposa strozzandosi con l’anello di fidanzamento.

E che dire di questo? Di un Presidente Galattico ex bicefalo che s’era comprato dai magratheani un minuscolo pianetino tropicale a prezzo di saldo per rivenderlo a dei ricchi terrestri perché potessero viverci agiatamente dopo che il loro pianeta era andato distrutto?

Quanto sarebbe folle una cosa simile?

 

 

La Tanngrisnir

 

Arthur era disteso nella sua cuccetta e guardava in su verso il cielo, dove Fenchurch galleggiava su una nuvoletta indossando gli stessi jeans scuri, gli stessi stivaloni e la stessa maglietta bagnata fradicia della prima volta che l’aveva vista, in stato d’incoscienza, sul sedile posteriore del suo fratello imbecille.

«La maglietta dev’essere bagnata?» chiese il computer.

«Come? Oh, dio, no. Scusami, certo che no, sono proprio un idiota.»

«Sto solo cercando di essere preciso, credo. Posso raffigurare questa persona Fenchurch nuda, se preferisci.»

«No, no» disse Arthur in un modo che avrebbe voluto essere spensierato. «Una maglietta asciutta va bene. Pioveva, quella sera, ed ero bagnato anch’io, se la cosa mi giustifica.»

«Non occorre spiegare» disse il viso renderizzato di Fenchurch. «Gli ospiti approfittano spesso delle mie rappresentazioni realistiche. Dispongo di un catalogo di celebrità, se ti va di sfogliarlo.»

«Magari un’altra volta» disse Arthur. «Saresti in grado di mostrarmi questi grebulon?»

«Certo. Desideri un’obliterazione, Arthur Dent? Se entri nel cubicolo, posso dare un colpo di laser sui ricordi.»

«No. Ho bisogno di vederli per come mi sento adesso.»

«E come ti senti, prego?»

Il sorriso di Arthur era colpevole come quello di un ladro di mele. «Non mi sento troppo male, a essere onesti. Piuttosto felice, in realtà, tutto considerato. Mi manca la mia spiaggia, ma sai, credevo che perdere la Terra mi avrebbe colpito di più, invece non è successo. Forse, se fossi in grado di vedere in faccia i responsabili, potrei sentirmi un po’ peggio.»

«Ho l’alta risoluzione, un sistema di altoparlanti a nido d’ape, visione 3D e percezione ultraprofonda compattati in una piccola telecamera teleguidata non più grande di una testa umana» disse il computer in tono confidenziale. «Per non parlare del punta-e-spicca e del gorgheggiatore Uao-Uoo. Figurati se non riesco a farti sentire una merda.»

«Eh?»

«Parole tue, non mie.»

Fenchurch sparì e sul soffitto apparve l’oscurità dello spazio. Arthur riconobbe il sistema solare e i dieci pianeti in orbita ellittica intorno al Sole. L’azzurro intenso di Saturno, Giove come un enorme macigno di malachite. Sassi grossi come continenti ruotavano e vibravano nella cintura di asteroidi al di là di Marte, fragorosi rombi di tuono scuotevano la cuccetta quando le rocce si schiantavano le une contro le altre.

«Era la nave o faceva parte dello show?»

«Ho inserito io il sonoro» ammise Fenchurch. «Concedimi una piccola licenza poetica. Tutti questi altoparlanti e non c’è un bel niente da sentire nello spazio.»

Si tuffarono ancora più in là, saettando nella vastità blu-nera dello spazio vuoto, tra ciuffi di gas interstellare carico che gli sfrigolava davanti agli occhi. E viaggiarono, ancora oltre, al di là del pianeta nano Plutone, oltrepassandone uno appena più grande, un corpo interamente gelato dalla superficie luccicante e uniforme, macchiato solamente da piccole screziature e dai grigi serbatoi industriali di un’astronave aliena ancorata sulla sua superficie.

«I grebulon» sussurrò Fenchurch. «In cerca di altre cose da monitorare.»

Il livello di dettaglio era incredibile. Arthur riusciva a distinguere ogni singola lastra della corazza, ogni voluta di cavo.

Protese la mano per toccare lo scafo e l’intero scenario scartò lateralmente, zoomando.

«Questo è il punta-e-spicca» disse Fenchurch. «Usalo con cautela. Ad alcuni poi viene da vomitare.»

Arthur si affacciò da un oblò, sentendosi come un guardone. Vide dei divanetti morbidi e dei portariviste. Umanoidi dall’aspetto gentile camminavano tranquilli per i corridoi rivestiti di moquette e si fermavano a chiacchierare cortesemente o a scambiarsi quelle che sembravano figurine astronomiche.

Non era il genere di comportamento che ci si sarebbe aspettato da distruttori di mondi. Arthur continuò a guardare, ma nessuno dei grebulon faceva risate da maniaco, né parevano avere tirapiedi deformi.

«Hanno un’aria carina» disse Arthur, un po’ sconcertato di quanto fosse facile farsi piacere quella gente.

Lo sbuffo di Fenchurch fu così azzeccato che avrebbe voluto piangere. «Sono sempre carini. Guarda i notiziari sub-Età il giorno dopo che un pianeta è stato ridotto in briciole e vedrai zigabyte di mondi vicini pronti a dire quanto gli sfrenati sterminatori fossero sempre stati gentilissimi durante le missioni commerciali, che spedivano sempre gattini per la festa di Felinasqua, e soprattutto come facevano una vita parca e ritirata.»

Arthur utilizzò il punta-e-spicca per zoomare su una donna grebulon circondata da un gruppetto di ammiratori.

«Gradisci che la visualizzi con una maglietta bagnata?» chiese maliziosa Fenchurch.

«Guardali negli occhi, Fenchurch.»

Il computer inviò un raggio d’energia oscura attraverso l’oblò. «Non dei più svegli, vero? Non riesco a scansionare più in là di cinque cicli orbitali di questa gente.»

«Ma perché l’avrebbero fatto, allora?»

«Ma-a-a-a-a-agari c’è stato qualcuno che gli ha dato una spintarella.»

Lo stomaco di Arthur sobbalzò mentre la sua visione si spostava a ipervelocità. Si ritrassero dalla superficie e indietreggiarono ancora, ritornando dal pianeta minore Plutone, appena in tempo per cogliere il posteriore di un’enorme nave spaziale, anelli azzurri di luce che ruotavano sempre più veloci per entrare nell’iperspazio. L’astronave era gialla e sgraziata e non sarebbe mai apparsa in uno di quei programmi frughi della rete sub-Età in cui degli ex piloti di mezza età presentavano le ultime astronavi mettendosi a gironzolare in un percorso di prova facendo allegri commenti xenofobi e affermando di non comprendere tutti quei quadranti e manopole. Questa nave era goffa nel senso esatto in cui non lo è una cometa.

«Vogon» disse Arthur, nemmeno un po’ sorpreso. «Manica di imbecilli. Stronzi assoluti.»

«Ah. Parli dei tuoi simili.»

Arthur sputò la sua indignazione. «Non i miei simili. Quella marmaglia ha sterminato i miei simili.»

«Be’, non tutti.»

«Quasi tutti. Tre persone, non resta nessun altro.»

«Non ancora, ma manca poco.»

«Manca poco? Cosa intendi con “manca poco”?»

«Be’, ho armeggiato con i loro computer. A quanto pare i vogon stanno dirigendosi verso la nebulosa oscura di Soulianis e Rahm per andare a stanare una colonia di terrestri.»

«Come? Terrestri? Che diavolo è una nebulosa oscura? Non dovresti suonare della musica minacciosa mentre dici cose del genere? Non riesci a raccogliere altri dettagli dai loro computer?»

Sul soffitto-schermo i cerchi roteanti azzurri d’un tratto si arrestarono, sbiancarono e sparirono, insieme alla nave vogon.

«Troppo tardi» fece Fenchurch. «Neppure i miei strumenti riescono a penetrare i sistemi attraverso l’iperspazio.»

Arthur rotolò giù dal letto, fiondandosi in testa il berretto, sovrappensiero.

«Dobbiamo avvertirli, no? Non dovremmo avvertirli? Dovremmo andare in questo posto, nebulocosa oscura? Bum-bum-boohh-mmm.»

«Non senti la mancanza della tua spiaggia, Arthur?»

E dalla mente di Arthur il computer estrasse un ricordo della sua capanna e l’affisse al soffitto.

«Mi manca da morire. Tutti i giorni erano uguali. Nessun pianeta che esplodeva, né gente che mi urlava in faccia, né alieni che invadevano il mio spazio personale. Perché la gente non fa che sentire il bisogno di stare naso contro naso per fare una semplice conversazione? E inoltre, sulla mia spiaggia, potevo divagare quanto volevo e nessuno provava a riportarmi sui binari della conversazione.»

«E quindi perché vorresti seguire i vogon? Loro non falliscono mai. Perché darti tanta pena?»

«Devo andare perché una larga parte di me non vuole andare. Che razza di terrestre sarei se non volessi salvare la mia specie?»

«Un terrestre vivo. Non sminuzzato fino agli atomi dalle testate termonucleari vogon. Un po’ arcaiche, ma fanno il loro dovere.»

«Dobbiamo svoltare, accendere un propulsore. Premere il pulsante per la megavelocità, qualcosa.»

«Calmati, Arthur Dent. Wowbagger va dove lo porta la sua agenda di impegni.»

«Stava andando sulla Terra, no? Per insultare i terrestri...»

«Esatto.»

«Ebbene... l’ultima colonia terrestre pare trovarsi chissà come in questa nebulosa oscura. Wowbagger non potrebbe insultare i terrestri, lì?»

«È fattibile. Sai esporre bene le tue ragioni, Arthur Dent.»

 

nota della guida Nel corso della Storia documentata, la capacità di “esporre bene le proprie ragioni” ha in genere avuto tanto successo quanto “appianare le divergenze discutendo ragionevolmente” o “mettere da parte le differenze”. Gli individui che adoperano queste tattiche sono generalmente animati da buone intenzioni e potrebbero diventare ottimi oratori motivazionali o maestri d’asilo, ma in nessun caso dovrebbero essere messi al comando in situazioni in cui ci sono in ballo delle vite. Commenti inopportuni del tipo “so che non sempre siamo andati d’accordo...” tendono a rinchiudere le negoziazioni in spirali che tenderanno al disastro, specie se il rappresentante dell’altra specie soffre di invidia organica globulare o se crede che tu sia uno stronzo dai modi paternalisti. Negoziazioni dal buon esito sono invariabilmente condotte da una posizione di potere, o quantomeno percezione di potere. Entrare a larghi passi nel luogo d’incontro indossando una comoda tunica avvolti da un profumo d’incenso e dal sincero desiderio di appianare tutte le difficoltà è un modo infallibile per far ammazzare tutti. Il Generale Anyar Tsista, rinomato principe dei negoziatori, ebbe una volta modo di affermare che sul lavoro non utilizzava mai una frase che non includesse almeno uno “zark”, due “merda”, e una mezza dozzina di “rottinculo”. Il suo pronunciamento finale conteneva un solo “merda”, ed era espresso sotto forma di un comando autoritario rivolto al suo intestino, intasatosi per via delle troppe ore passate attorno al tavolo dei negoziati. Sfortunatamente, a causa delle loro sottili pareti intestinali, i golgafrinchani sono inclini a catastrofiche perforazioni duodenali, e fu così che l’ultima orazione del Generale Anyar Tsista fu anche quella che lo uccise.

 

«Hai assolutamente ragione» disse Arthur. «Espongo bene le mie ragioni. Devo farlo immediatamente con Wowbagger.»

«Magari in maniera meno articolata» suggerì l’immagine di Fenchurch. «Potrei proporre di inserire uno “zark” e magari un paio di “pormozuffolo”?»

 

 

Wowbagger era seduto sul ponte, sulla sua vibropoltrona preferita, e cercava in ogni modo di evitare di parlare di sé. Fuori dalla corona del campo di forza della nave la distruzione della Terra aveva polverizzato la luna, producendo un anello ellittico di polvere che si allargava in direzione di Venere.

«Guardi, Trillian Astra. Un altro pianeta è sul punto di morire. Mi chieda di questo, o di qualcos’altro. Ho visto tante meraviglie.»

Trillian non era dell’umore adatto per lasciarsi distrarre. Un profilo di Wowbagger avrebbe fatto sbavare i redattori sub-Età sulle loro tazze di simul-caff-ipo-cal-no-grass-lacto-lass.

«La gente vuole sapere di lei. Chi è questo alieno verde che viaggia per l’universo e insulta tutti in ordine alfabetico?»

«Ah, vede, non è più così che lo faccio. Per un po’ la cosa dell’ordine alfabetico è stata divertente, ma poi ne ero diventato schiavo. La gente si aspettava i miei insulti ed era preparata per ricambiare il favore.»

Random alzò gli occhi da una pagina sulla quale stava disegnando una serie di flibuzzi dall’aria furibonda.

«Dicendo cose del tipo: “Sei un patetico fallito”?»

«Per parafrasare, sì.»

«Oppure: “Non sapevo che le lucertole indossassero lo smoking”?»

«Una volta o due. Sto cercando di parlare con tua madre.»

«Oppure: “È considerato gradevole quell’odore,, nel posto da cui provieni?”.»

Trillian cinse la figlia in un abbraccio che era sospettosamente simile alla presa a cravatta di un incontro di wrestling.

«Non intendo abbandonarti, piccola cara; non accadrà mai più. Non c’è bisogno di tutta questa ostilità.»

«Vorrei tanto che lo facessi» disse Random, torva. «Senza te intorno mi era andata benissimo.»

Trillian travestì il suo digrignare di denti nella forma di un sorriso amorevole e ritornò all’intervista. «E così ha abbandonato il suo caratteristico marchio distintivo dell’ordine alfabetico?»

«Sì» disse Wowbagger. «Do il benservito a pianeti interi, adesso. È molto più semplice, e non devo sorbirmi tutti gli scagazzainsulti in giro che cercano di sfidarmi. Mi metto semplicemente in orbita e getto una bomba dati nell’atmosfera. Ciascuno riceve un’e-mail contenente un file audio. Mi creda, chi preme quel pulsante play non ha alcun dubbio su ciò che provo verso gli esseri senzienti.»

«E cosa prova?»

«Sono mortali. Li disprezzo.»

«Dunque sotto questo atteggiamento distaccato c’è un semplice calunniatore?»

«Cosa? Crede lo faccia perché mi diverte usare il turpiloquio?»

«No?»

«Be’, sì. Mi piace, e immensamente. Ma non è solo questo...»

E Wowbagger raccontò a Trillian qualcosa che non aveva mai detto a nessuno. Forse fu merito del tono quasi ipnotico della voce appena roca della donna, forse fu solo che era giunto il momento di raccontarlo a qualcuno.

«Voglio che mi uccidano. Voglio che ci provino.»

“Oh Dio” pensò Trillian. “Chip del registratore, non tradirmi adesso.”

Guardò giù al suo orologio da polso e fu sollevata vedendo il display dell’equalizzatore audio in movimento.

«È un’affermazione non da poco.»

«Su-suppongo di sì» disse il viaggiatore spaziale verde.

 

nota della guida Questo fu il primo balbettio di Wowbagger da quando aveva visitato il sistema del Castoro dove la parolaccia g-g-grun-ntivartads aumenta di potenza per ogni “g” aggiunta.

 

«Sono sbalordito io stesso di averlo detto.»

«Idem, signor Wowbagger.»

«Puoi chiamarmi Bowerick.»

«Bowerick?»

«Il mio primo nome. Mio padre aveva un certo senso dell’umorismo. Bow Wow, suona un po’ come bau bau...»

«Ah, sì» disse Trillian, provando d’un tratto molta meno preoccupazione per il funzionamento del registratore.

L’universo non tollera che momenti teneri come questo durino molto a lungo, e parecchi si contesero l’onore di essere i primi a calpestare malamente quello specifico momento lì. In primis Random Dent, immersa a meditare una denigrazione disgustata da scagliare prima di scappar via dal ponte per la seconda volta. Ma il vincitore fu suo padre, Arthur Dent, il cui comico arrivo controbilanciò gradevolmente la natura saccarinacea di quell’attimo, ripristinando così l’ordine dell’universo.

«Ehi, voi zarkuti!» disse Arthur, arrivando di corsa sul ponte. «Dobbiamo girare questa bagnarola di merda e portare le nostre chiappe pormozuffolose fino alla nebulosa oscura di Soulianis e Rahm.»

«Bum-bum-boohh-mmm!» strombazzò il computer, nel sincero tentativo di rendersi utile.

E poi, per una finale risata cosmica: «Sono stato un po’ scortese? Scusatemi tutti. E comunque, che cosa sarebbe un pormozuffolo?»